Non tutti i depressi piangono.
Alcuni dormono. Tanto. Sempre di più.
Per fuggire. Per dimenticare. Anche se non sanno bene cosa.
Ci sono depressioni che non fanno rumore, che non urlano aiuto, che non chiedono attenzione.
Si spengono lentamente e si anestetizzano con il proprio cervello.
E a volte sembrano solo… sonno. Ma sono qualcosa di molto più profondo e subdolo.
Quando il letto diventa rifugio
Avevo 14 anni.
Giovane, pieno di energie. Fuori sembrava tutto “ok”. Dentro, non lo era per niente.
Dormivo anche 16 ore al giorno. E se mi svegliavo, pensavo solo a quando sarebbe arrivato il momento di tornare a letto.
Non era tristezza. Non era dolore visibile.
Era più simile a un’assenza, come se il mio cervello si fosse scollegato dalla realtà.
Un silenzio mentale, una bolla.
Camminavo nella vita come uno zombie, con il solo desiderio di chiudere gli occhi e spegnermi di nuovo.
Non me ne rendevo conto. Poi sì. E faceva paura.
All’inizio sembrava stanchezza. “Sto crescendo”, dicevo. “Normale, sarà la scuola, sarà il corpo”.
Poi ho iniziato a notare che non provavo più nulla. Nessuna eccitazione, nessuna curiosità.
Le cose che prima amavo erano diventate inutili.
Gli stimoli non stimolavano. I pensieri erano nebbia.
Dormivo non per riposare, ma per non sentire.
Dormivo perché da sveglio non avevo una ragione per esserlo.
La depressione che non sembra depressione
Questa forma di depressione non è come nei film.
Niente pianti isterici. Niente sfoghi emotivi.
Solo un lento scivolamento verso il nulla.
Ed è proprio per questo che è pericolosa: perché passa inosservata.
Anche a te stesso.
È subdola. Invisibile.
Famiglia presente, ma impotente
Ho avuto la fortuna immensa di avere dei genitori che mi hanno osservato e capito a fondo.
Non mi hanno spinto. Non mi hanno detto “reagisci”.
Erano dispiaciuti, sì. E a volte si sentivano impotenti.
Ma c’erano e ci sono sempre stati.
Il primo passo fu andare da un neurologo.
Errore comune. Curò con farmaci inopportuni e troppo pesanti per il mio cervello da adolescente, ma almeno funzionarono.
La risalita è un lampo. Da afferrare al volo.
La depressione così non finisce da un giorno all’altro.
Non c’è una data che segni la svolta.
Ma un giorno, mentre ero a letto, sentii dentro un impulso: “esci, anche solo per prendere aria”.
Durò un secondo. Ma lo afferrai.
E così ho imparato il trucco: non lasciar sfuggire quell’attimo.
Ogni volta che una minuscola voglia ti attraversa, devi prenderla e agire.
Anche se dura un respiro. Anche se poi svanisce.
È da lì che si riparte.
Non ero pigro. Il cervello era in tilt.
Chi osserva da fuori pensa che chi dorme così tanto sia solo svogliato.
Che manchi la forza di volontà.
Ma il cervello in depressione cambia.
I neurotrasmettitori si sbilanciano.
Dopamina, serotonina, noradrenalina: si alterano. È biochimica, non pigrizia.
Quando il tuo sistema nervoso si spegne, non è questione di “tirarsi su”.
È questione di ricollegare i fili, poco alla volta.
E a volte servono farmaci. Sì, anche quelli che spaventano.
Ma se ben dosati, da professionisti come psichiatri, ti salvano.
Oggi: cosa resta
Resta una memoria impressa a fuoco.
Una consapevolezza profonda: non tutte le depressioni hanno la faccia della tristezza.
Resta un metodo, che uso ancora:
“Quando sei un po' apatico e ti viene un’idea, un brivido di fare qualcosa, fallo subito.
Anche se dura un secondo.
Agisci. Senza pensarci troppo.”
Resta anche una forza in più: quella di aver visto il fondo, e di esserne risalito.
Non con frasi motivazionali. Ma con micro-azioni.
La conclusione è semplice: dormire ti fa dimenticare. Ma non risolve.
Anzi, a volte ti fa perdere i giorni più importanti della tua vita.
Perché la depressione non ti toglie solo la voglia di vivere.
Ti toglie anche la percezione del tempo.
E mentre dormi per dimenticare, il mondo va avanti. Senza di te.
Ma puoi recuperare.
Sempre.
A partire da quel singolo secondo di luce. Quello che, se non lo afferri, scompare.
Ma se lo cogli, può cambiare tutto.